Un blog che racconta la mia esperienza con la Guillain Barrè e si rivolge a chi, pazienti e familiari, stiano vivendo o abbiano vissuto lo stesso incubo.
Si legge in senso inverso rispetto all'ordine in cui appaiono i post.

mercoledì 16 febbraio 2011

Dimissioni

Quando, qualche giorno dopo, fui dimessa non mi sembrava vero. Dopo un mese esatto potevo finalmente lasciare quel luogo di sofferenza e morte.
Quella mattina, arrivata l'ambulanza, che avrebbe dovuto trasportarmi nella struttura riabilitativa, si riunirono tutti per salutarmi: per qualche minuto i medici e gli infermieri che così bene avevo imparato conoscere, qualche volta a temere, ma soprattutto a rispettare, si fermarono e mi abbracciarono. Li ringraziai ad uno ad uno. C'era anche chi avevo additato come l'uomo nero, un infermiere un pò scorbutico di cui avevo un sacro terrore e che, nelle elucubrazioni maturate nelle lunghe ore di noia, avevo etichettato come poco professionale oltre che rude. Ero riuscita a convincermi a tal punto che mi angosciasse che una volta mi confidai con la dottoressa e lei mi promise che gli avrebbe parlato.
Da quel giorno lui non si avvicinò più al mio letto.
A parte il fatto che fosse effettivamente un pò burbero, non c'era in realtà una vera ragione per averne paura, era, come la certezza di essere diventata tossicodipendente, una delle tante fisse che la mia mente, vuota di altre preoccupazioni, aveva partorito.
Non riuscii mai a trovare il coraggio per scusarmi di aver pensato tanto male di lui, ma lo abbracciai più forte degli altri, mentre me ne andavo.
La dottoressa, mentre la barella mi portava via, mi sussurrò all'orecchio il numero di telefono del reparto. Chiamaci e facci sapere come va, mi disse.
E io ero talmente entusiasta di lasciare quel posto che non mi soffermai nemmeno un secondo a riflettere su ciò che mi aspettava.

mercoledì 2 febbraio 2011

L'uscita da Rianimazione

La quarta settimana che passai in Rianimazione, fu totalmente dedicata alla rieducazione del respiro. Dovevo reimparare a respirare con naso e bocca, se volevo che mi rimuovessero la tracheostomia.
Cosa più facile a dirsi che a farsi, giacché dopo quasi un mese di respiratore e due settimane di tracheostomia, respirare attraverso il buco che avevo in gola mi sembrava la cosa più normale al mondo. Tanto normale che quando l'infermiere provò a chiudermi la canula quasi mi parve di soffocare.
La canula per tracheostomia ha la possibilità di essere chiusa usando una controcanula, praticamente un tappo, che impedisce all'aria di uscire dal forellino alla base del collo permettendo, d'altra parte, la fonazione. Ma l'abitudine alla canula e, soprattutto, una buona dose di ansia, mi impedirono di gioire per le due conquiste: l'autonomia nella respirazione e la possibilità di tornare a parlare.
Il ventilatore, del resto, non serviva più: i medici erano assolutamente concordi nel giudicarmi idonea alla rimozione della tracheostomia e peraltro, la clinica per la riabilitazione contattata dall'ospedale mi avrebbe accettata soltanto senza di essa. Ma ad ogni tentativo che gli infermieri facevano di chiudermi la canula, mi sembrava non avere abbastanza aria, mi mancava letteralmente il respiro.
Mi fu spiegato che spesso questa reazione è una forma di suggestione, che i miei valori erano tutti nella norma e che, quando mi chiudevano la tracheo, la saturazione non subiva nessuna alterazione, ma io non volevo saperne. Ci vollero quattro giorni di tentativi. Quattro giorni in cui ogni volta che vedevo avvicinarsi un infermiere con tappo per tracheostomia in mano, cominciavo a sudare freddo.
Poi, un giorno, il mio infermiere preferito, che l'indomani sarebbe partito per le ferie, entrò nella mia stanza annunciandomi che, l'avessi voluto o no, mi avrebbe chiuso la canula. Non voleva partire sapendomi ancora trachestomizzata.
Mentre procedeva con l'operazione, mi parlava e mi poneva domande ed io mi ritrovai, ad un certo punto, a rispondergli, senza quasi rendermene conto. Come se nulla fosse, stavo parlando e soprattutto stavo respirando da sola.
Il giorno successivo, pochi minuti alle 1500, i miei già fuori dalla porta del reparto in attesa di poter entrare, uno ad uno, come avevano fatto nell'ultimo mese, l'infermiera invece di sistemarmi il letto, come aveva sempre fatto subito prima dell'ingresso dei familiari, mi chiese se non avessi piuttosto voluto andare io da loro. Mi aiutò a mettermi in piedi, mi sorresse per quei pochi metri che mi separavano dalla porta, ne aprì dapprima un'anta, facendomi restare dietro quella chiusa e...
A mio padre per poco non venne un colpo, mia madre scoppiò in un pianto dirotto ed anche negli occhi di Daniele scorsi qualche lacrima.

martedì 25 gennaio 2011

La fisioterapia

Da quando i miei piedi avevano ricominciato a muoversi, mio padre ogni giorno sfruttava il poco tempo che aveva a disposizione durante l'orario delle visite per massaggiarmeli, allungarmeli, controllare la forza che mettevo nel puntarli contro i palmi delle sue mani. Nel frattempo mi raccontava della situazione politica attuale, fu da lui che venni a sapere della casa di Montecarlo di Fini e della morte di Cossiga. Ogni tanto mi leggeva anche le rassegne stampa che lui stesso preparava: selezionava gli articoli secondo lui di maggior interesse me li leggeva quando veniva a trovarmi.
A volte abbassava la voce perché aveva paura di passare per matto con gli infermieri.

Intanto i medici, vedendo i miei piccoli miglioramenti, riuscirono a farmi avere una fisioterapista interna all'ospedale che, dalla settimana di ferragosto, si occupò di me.
Sia i dottori che gli infermieri avevano dimostrato nei miei confronti, sarà che ero una delle più giovani ospiti del reparto, una grande sensibilità e mi sentivo coccolata e protetta da tutti.
Quando ricominciai a masticare, e quindi a mangiare solido e liquido, e non più solo cremoso, una dolcissima infermiera, quando era di turno di mattina, mi portava un cornetto caldo ed io adoravo queste attenzioni, oltre ai suoi cornetti.

A volte gli infermieri mi facevano restare anche due ore seduta su una sedia, posizione che mi causava un dolore agli adduttori simile a quello provocato da uno stiramento, ma era l'unico modo per allungare quei muscoli che erano rimasti troppo tempo inerti ed atrofici. In ogni occasione, per esempio durante l'igiene, mi spronavano a compiere quei piccoli gesti che avrebbero potuto accelerare la ripresa, e può sembrare stupido, ma nel mio caso anche pettinarmi o lavarmi i denti rientrava nella lista. Era doloroso, ma stavo riprendendo il controllo del mio corpo.

Dalla punta delle dita, alle braccia, al collo la fisioterapista e la sua allieva ogni giorno, weekend esclusi, dedicavano un'ora alla mia riabilitazione. Per il resto del tempo ci pensavano gli infermieri.

Il risveglio

Il giorno dopo aver subito la tracheostomia, mentre l'infermiere mi stava pulendo e mi girava prima su un lato e poi sull'altro, forse proprio a causa di quei movimenti, ebbi un'attacco di nausea e diedi di stomaco. Eviterò di scendere troppo nei dettagli, basti sapere che il rigurgito della nutrizione artificiale è pericoloso, in quanto il materiale digestivo potrebbe finire nelle vie respiratorie, con conseguenze che è facile immaginare. Fu quindi posizionata la sacca contenente la nutrizione artificiale più in basso rispetto al mio corpo, per bloccarne il flusso che, normalmente, raggiunge lo stomaco sfruttando la forza di gravità.
In seguito, attraverso il sondino, mi fu iniettato nello stomaco, per svuotarlo di ogni residuo, mezzo litro di Coca Cola, bevanda che a me, fra l'altro, non è mai piaciuta.
Chiaramente non ne sentii il sapore, ma avvertii soltanto lo scorrere nell'esofago di questo liquido freddo e decisamente frizzante. La soluzione funzionò ed il mio stomaco nel giro di poche ore si vuotò del tutto e cominciarono a farsi sentire i morsi della fame. Di lì a poco mi rimossero il sondino naso gastrico. Ricordo che chiesi l'anestesia prima di procedere, richiesta che fece sorridere la dottoressa, la quale mi confermò che, nonostante le mie paure, la rimozione non causa dolore, semmai un leggero fastidio.
A me sembrò lungo svariati metri, non finivano mai di estrarmelo dal naso.

Il giorno dopo feci il mio primo pasto.
Ricordo la scritta sul foglietto che accompagnava il vassoio, quando mi arrivò sul letto: dieta per tracheostomizzati e consisteva in un vasetto di omogeneizzati alla carne, un purè di patate e polpa di mela.
Ero felice come un bambino e mi sembrava la cosa più gustosa che avessi mai assaggiato.

Negli stessi giorni, mi resi conto che le mie gambe, seppur lentamente, stavano risvegliandosi e potevo finalmente muovere i piedi. Lo capii quando un giorno, a mia madre che era venuta a trovarmi, chiesi di tagliarmi le unghie dei piedi e ne tirai fuori uno dalle lenzuola, per farle capire cosa intendevo, quando facevo il gesto dell'indice e del medio che si aprono e si chiudono a forbice. Quelle due dita non erano più l'unica parte del mio corpo che riuscivo a muovere.

sabato 22 gennaio 2011

La tracheotomia

Quando alla fine della prima settimana in cui ero intubata, la dottoressa mi disse che avrebbero dovuto "fare una prova" per vedere la mia autonomia nella respirazione, mi tornarono alla mente le puntate di ER, in cui, quando qualcuno veniva estubato, tossiva l'anima prima di tornare a respirare normalmente. Io avevo ancora ben presente nella mente quando, solo pochi giorni prima, non riuscivo a tossire e l'idea di morire mentre cercavo di tossire e respirare mi terrorizzava.
In più, mi avevano già spiegato che generalmente non è raccomandabile estubare e reintubare un paziente, perché aumenta il rischio di infezioni.
Una mattina semplicemente venne nella mia stanza e mi disse oggi ti estubiamo. Io ho cominciato a tossire prima ancora che mi toccassero.
Sono rimasta senza tubo mezz'ora, la maschera ad ossigeno sulla bocca e la mano della dottoressa nella mia. Alla fine, una bella iperventilata, una sana dose di curaro e fui reintubata.

Quasi una settimana dopo ero ormai fuori tempo massimo per il tubo che, a lungo andare può dare oltre alle infezioni, anche lesioni alla trachea. Così fissarono al 2 agosto la data in cui sarei stata tracheostomizzata.
I miei valutarono a lungo quell'ipotesi che i medici avevano proposto tempo prima e alla fine acconsentirono, firmando il modulo. Gli stessi medici dissero loro che, anche in caso avessero opposto un rifiuto, avrebbero proceduto comunque, vista la criticità delle mie condizioni.
Ricordo che nell'attimo prima in cui mi spararono in vena morfina e curaro per addormentarmi, tenevo la mano del mio infermiere preferito, lo sguardo atterrito e la lacrima che scendeva.

So che mia madre volle entrare nella mia stanza nonostante i medici le avessero detto che ero ancora sotto l'effetto dell'anestesia e che ne uscì piangendo poco dopo. Non aveva resistito alla visione della figlia con le palpebre leggermente aperte ed i globi rivoltati all'indietro.

Quando mi svegliai, nonostante tutte le paure antecedenti l'operazione, mi resi da subito conto che la tracheostomia fosse meno fastidiosa del tubo. Non era affatto dolorosa come mi sarei aspettata, anzi. In realtà sentivo soltanto un lieve pizzicorio in gola.

mercoledì 19 gennaio 2011

La seconda e la terza settimana

Quando mi avevano intubata, mi avevano contestualmente inserito un sondino naso gastrico, lo stomaco devo continuare a lavorare, dicevano i medici, e comunque io non ero in grado di deglutire nulla nel mio stato, figuriamoci con un tubo endotracheale in bocca.
Ci si può immaginare la situazione: intubata, con sondino naso gastrico, sensori per la pressione, il battito, la frequenza respiratoria e la saturazione del sangue attaccati sul petto, frequenzimetro al dito indice, aghi e flebo su entrambe le braccia,  catetere urinario e pannolone. Non potevo proprio dire di essere serena in quei giorni.
Per questo chiedevo di essere sedata durante la notte, da sola non sarei mai stata in grado di addormentarmi. Così, ogni sera verso le 2330-2400, un bel bolo di Diprivan mi spediva felice verso quell'oscurità che tanto agognavo.
Non sempre. A volte il Diprivan non bastava. Ero talmente frustrata per aver perso il controllo del mio corpo che temevo di perdere anche quello della mia mente, e la mia ansia mi faceva combattere gli effetti del tranquillante. Medici ed infermieri erano spesso sbalorditi nel vedermi ancora sveglia dopo dosi che, me l'hanno confermato, vengono usate nelle operazioni a cuore aperto. Da lì a guadagnarmi il soprannome di tossica, il passo fu breve. Qualche volta dovettero aggiungere morfina al Diprivan ed allora partivo per viaggi piacevoli ed assurdi. Ricordo le esplosioni di colori, rosso e ocra, soprattutto, che mi facevano pensare di essere dentro un quadro di Gauguin. In sottofondo, ma molto, molto lontano,  i rumori dell'ospedale.

La mattina, la mia giornata iniziava sempre con la signora delle pulizie: una di quelle persone che sa sempre tutto di tutti, che si rende utile in reparto anche rispondendo al telefono ed al citofono, che da consigli non richiesti, ed esprime pareri medici di dubbia natura. Il tutto chiaramente usando un volume di voce pari, in decibel, ad un autotreno su una strada di campagna. Se, qualche volta, non la sentivo entrare in reparto per l'inizio del suo turno, alle 0600, perché mettiamo, stavo ancora fra le braccia di Morfeo, venivo catapultata nel mondo dei vivi dal suo spazzolone, che lei, nel nobile intento di pulire la mia stanza, batteva contro la struttura metallica del mio letto più e più volte. Non era solo il rumore. C'era anche la nausea che, in più di una circostanza, ricordo di aver provato per il dondolio che il suo battere sul mio letto, che aveva le ruote, ancorché fosse frenato, causava.
Non lo faceva di proposito, ovviamente, ero io ad essere totalmente insofferente.
Alle 0700 il cambio turno, smontavano i medici e gli infermieri del turno di notte ed attaccavano quelli della mattina. L'odore del caffè e dei cornetti che qualcuno non faceva mai mancare in quel momento della giornata stuzzicava le mie narici e mi intristiva infinitamente non poterli assaggiare.
Poi iniziava l'igiene. Mi staccavano il pannolone, mi lavavano (ah che piacere quell'acqua fresca che scorreva fra le mie gambe!), mi mettevano un pannolone pulito e mi cambiavano le lenzuola. Per portare a termine questa operazione, mi giravano prima da una parte e poi dall'altra scostando da ognuno dei lati le lenzuola da cambiare e posizionando quelle pulite. Non potendo collaborare granché a nessuna di queste operazioni, gli infermieri mi ancoravano al letto, le braccia intorno alle sbarre laterali, in modo da non cadere all'indietro mentre loro cambiavano la biancheria. Il tutto con la paura di perdere il tubo che però, per fortuna, rimaneva saldamente ancorato nella mia trachea e mi seguiva in ogni movimento.

Le ore passavano sempre troppo lente, nella mia stanzetta tutta vetri, che dava sulla camerata in cui erano posizionati altri 10 letti con altrettanti pazienti. Ricordo che l'aria condizionata era spesso talmente forte per le dimensioni della stanza che avevo bisogno di una coperta per non morire di freddo. L'aria arrivava da un bocchettone posizionato esattamente al di sopra della mia testa e spesso pensavo che se mai fossi guarita dalla Guillain Barrè, avrei sofferto di nevralgia cronica al trigemino per il resto della mia vita.

Oltre a ragionare sui danni permanenti provocati dall'aria condizionata, la mia attività quotidiana consisteva anche nel valutare le conseguenze dell'assunzione prolungata di tranquillanti (ero convinta che mi sarei presto ritrovata tossicodipendente), nel contare e ricontare i pannelli del controsoffitto, ascoltare le conversazioni degli infermieri e le discussioni fra i medici e, soprattutto, seguire con trepidazione ogni tentativo di rianimazione di qualche sventurato, perlopiù vecchietti e malati terminali, che spesso, purtroppo, finivano nella dipartita dell'ammalato. La concitazione, il silenzio e poi solo il pianto dei parenti.

Alle 1500, finalmente, arrivava l'orario delle visite.
Per tutto il giorno non aspettavo altro che di vedere i miei genitori, mio fratello, il mio compagno ed i miei amici, ma il tempo non era mai abbastanza. Il mio umore non era, come si può immaginare, propriamente allegro, così mio padre aveva chiesto a tutti di venirmi a trovare più spesso che potevano, cercando di tirarmi su il morale.
Fra i vari farmaci che, ne ero convinta, presto mi avrebbero causato dipendenza, c'erano anche antidepressivi e sedativi, che avevano l'effetto di ridurmi in uno stato quasi letargico: a malapena riuscivo a tenere gli occhi aperti. Figuriamoci come potevo apprezzare tutto quel via vai di di gente (nei reparti di Rianimazione, per ridurre al minimo il rischio di infezioni,  si entra uno per volta con indosso camici e sovrascarpe sterili): in realtà, ciò che desideravo di più era che quella mezz'ora passasse il più velocemente possibile, per rimettermi a sonnecchiare. Quindi, per riassumere, prima non vedevo l'ora che arrivassero le 1500 per vedere amici e parenti, subito dopo desideravo solo che se ne andassero tutti.

In questo periodo la paralisi si era fatta totale, l'unico movimento che mi era concesso era quello dell'indice della mano destra, con il quale chiamavo gli infermieri sollevandolo, o battendolo contro le sbarre laterali del letto, nella speranza che qualcuno di loro mi vedesse o mi sentisse. Scoprii anche di poter utilizzare quell'unica parte del mio corpo che ancora si muoveva per disegnare le lettere delle parole sul palmo delle mani di medici e infermieri e comunicare così quello di cui avevo bisogno. Spesso scrivevo solo "testa dritta", che significava che avevo bisogno che la mia testa fosse rimessa in asse col collo, perchè magari era scivolata su un lato e da sola non riuscivo a spostarla.

Il mio compagno, consapevole del mio indice, aveva escogitato un altro sistema prodigioso per permettermi di comunicare. Comprò un ditale da cucito cui incollò un minuscolo pezzo di matita, mi portò un blocco per appunti e, sorreggendomi il polso mi permise di scrivere nel vero senso della parola.
Da quel momento ogni mia comunicazione avveniva per mezzo della matitina sul ditale.

Tengo ancora conservati tutti i bigliettini che scrissi dalla mia stanza d'ospedale. La calligrafia incerta, qualche parola illeggibile e tanta voglia di parlare e soprattuto, di tornare alla normalità.

Giorni 5 e 6 - Intubata

La dottoressa, alla mia domanda esplicita, ho finito la terapia con le immunoglobuline, perché non vedo alcun miglioramento, anzi, mi sono paralizzata totalmente, mi rispose onestamente, la malattia deve ancora raggiungere il suo apice, e generalmente questo avviene in 2-3 settimane. Ero sempre più sconfortata. 
Ormai non muovevo più nemmeno le braccia e la respirazione si era fatta più difficile. I neurologi mi sottoposero ad una Elettromiografia, esame che serve a misurare i tempi di conduzione dell'impulso nervoso: maggiori i tempi, maggiori i danni alla mielina dei nervi, più difficili i movimenti.
Dall'espressione del viso del medico compresi che i miei tempi di latenza erano decisamente lunghi.
Inoltre, non potendo deglutire, ero costretta a sputare la mia saliva su cumuli di garze che gli infermieri mi mettevano sotto al collo per evitare di bagnarmi. La sera del primo giorno ebbi una crisi respiratoria, ma le infermiere mi posizionarono seduta sul letto e con un pò di tapping (lo chiamarono così) smisi di tossire.
In realtà, tossire non è proprio il termine adatto. Poiché infatti anche il mio diaframma cominciava a paralizzarsi, non ero più in grado di tossire e ogni più piccolo pizzicorio in gola si traduceva in disperati tentativi di espettorare, seguiti chiaramente dallo stato di agitazione che il non riuscirci mi causava.
Così quando la seconda sera in rianimazione fui scossa da un nuovo attacco della mia tosse senza tosse, le infermiere provarono di nuovo la manovra del giorno precedente, così come provarono a mettermi sdraiata, pancia sotto e busto fuori dal letto, battendomi a turno sulla schiena per aiutarmi ad espettorare. Ad un certo punto ricordo di aver provato un tale bruciore alla schiena che chiesi alle infermiere di smettere di battermi. Ma la tosse non passava e mi addormentarono. E mi intubarono.
Ricordo quando mi svegliai la mattina dopo e mi trovai collegata a questo lungo tubo di plastica verde. Sembrava un corrugato, uno di quei tubi che usano gli elettricisti per far passare i fili elettrici. Solo che dentro passava l'ossigeno che un ventilatore mi pompava direttamente nei bronchi.

martedì 18 gennaio 2011

Giorno 4 - La diagnosi e la rianimazione

Mi misero un catetere dopo che per un'ora e mezzo non ero riuscita a farla nella padella.
Forse ero inibita per il fatto di trovarmi in uno stanzone, separata da altre 30 persone di ogni età e sesso solo da un piccolo paravento, vai a sapere.

Passai 24 ore al Pronto Soccorso del Grassi, fra zanzare che non mi davano tregua e da cui non potevo liberarmi, visto che non riuscivo a muovermi, e vecchiette che venivano tenute in osservazione dopo svenimenti sospetti, che mi raccontavano le loro storie.

Ricordo una ragazza con dei pants talmente hot da sembrare mutandine, bianchi con i cuoricini, che bestemmiava come uno scaricatore di porto perché fra la visita in cui le avevano riscontrato una frattura al polso ed il momento in cui si era liberata la sala gessi, non le avevano permesso di andare fuori a fumarsi una sigaretta. Alla fine, stufa di aspettare, se ne andò urlando come un'ossessa che aveva bisogno di fumare. Avrà avuto poco più di vent'anni.

Ricordo che durante la notte il signor Rossi (si chiamava proprio così), un ottantenne con la gobba che sembrava un folletto, andava girando per lo stanzone in cerca di sua madre e le infermiere ridevano mentre lo riportavano a letto e gli toccavano la gobba.

Ricordo due dottori in turno in due scrivanie vicine, di fronte al mio letto: uno dei due era un ragazzo della mia età, molto carino, attorniato da tutte le infermiere del pronto soccorso che parlavano con voci di un'ottava superiore al normale. L'altra era una dottoressa e visitava nello stesso lasso di tempo un numero di pazienti 3 volte superiore a quelli che visitava lui. Forse perché non aveva distrazioni.

La mattina tornò il neurologo e corresse la diagnosi. Fu allora che per la prima volta sentii parlare della Guillain Barrè. Mi disse che era una malattia autoimmune scatenata a volte da una influenza intestinale. La reazione crociata aveva fatto sì che i miei anticorpi, invece di attaccare l'agente esterno, non è ancora ben chiaro se si trattasse di un virus o di un batterio, avessero attaccato la mielina dei miei nervi, la guaina che conduce l'impulso nervoso, danneggiandola ed impedendo il passaggio dello stimolo. Ecco perché ero rimasta paralizzata. La terapia era comunque la stessa e così continuai con le immunoglobuline.
Nel frattempo si stava cercando per me un letto in un qualche reparto di rianimazione neurologica ed alla fine ne trovarono uno nello stesso ospedale, al piano di sopra. Avevo bisogno di essere monitorata 24 ore, perché i medici temevano che la paralisi avrebbe presto raggiunto il diaframma, impedendomi di respirare.
Appena arrivata in rianimazione mi riempirono il torace di sensori, mi attaccarono quello che imparai essere un frequenzimetro, ma che io chiamavo ditometro, con gran divertimento dei medici, e mi addormentarono per farmi la puntura lombare, che avrebbe confermato la diagnosi.

Mi risvegliai, poco dopo, la puntura già eseguita e medici ed infermieri intenti adesso a rianimare  una vecchietta che era andata in arresto cardiaco. Le fecero 6 fiale di adrenalina, ma lei morì lo stesso.

Giorno 3 - L'ambulanza, il Pronto Soccorso e la diagnosi

La mattina del 21 luglio, Daniele mi baciò prima di andare a lavorare e mi chiese, preoccupato, se stessi bene. Certo, gli risposi ancora nel dormiveglia. Erano le 0430, la mia sveglia avrebbe suonato solo due ore e mezzo più tardi e non volevo perdere neanche un minuto di sonno.
Ma non andava tutto bene.
Verso le 0630 mi alzai per fare pipì, o meglio, provai a farlo, ma le mie gambe non volevano saperne di uscire dal letto, le mie anche non riuscivano a ruotare permettendomi di mettere i piedi per terra. 
I miei muscoli avevano semplicemente smesso di rispondere a qualsiasi comando.
Pensai di nuovo che si trattasse di una esagerazione della mia mente e feci per prendere un sorso dal bicchiere d'acqua che tengo sempre sul comodino. Allungare la mano per portare a termine questo gesto banale fu quasi impossibile, le braccia si erano totalmente intorpidite e le sentivo pesanti in maniera insostenibile.
Arrivai dopo diversi tentativi al bicchiere, ne accostai il bordo alle labbra e mandai giù. Notai subito due cose:
- che la deglutizione mi causava dolore;
- che, soprattutto, non avevo deglutito affatto, visto che l'acqua mi era uscita dal naso.
A quel punto mi convinsi che sarebbe stato meglio chiamare un ambulanza e farmi portare al pronto soccorso ma io abito in una casa su due piani e la mia stanza si trova su quello inferiore: se anche fossi riuscita ad alzarmi dal letto, sarebbe comunque stato impossibile fare le scale, ed aprire la porta ai paramedici. Così telefonai ai miei genitori che abitano a 10 minuti e che, per ogni evenienza, hanno una copia delle chiavi di casa. L'evenienza di solito consiste nel prelevare Emma (il mio labrador) e portarla a fare una passeggiatina quando io e Daniele abbiamo lo stesso turno, ma stavolta era un pochino più seria.
Non volevo comunque allarmare troppo mia madre, la mia intenzione era dirle che non mi sentivo troppo bene e che forse sarebbe stato il caso di portarmi in ospedale.


Ma la voce che mi uscì non era la mia solita voce. Era impastata, affaticata, nasale. Mi accorsi che avevo difficoltà a parlare e se ne accorse anche mia madre.
I miei genitori arrivarono di lì a poco, mio padre si rese subito conto delle mie condizioni e mi portò in braccio al piano superiore, dove mi adagiò sul divano in attesa dell'ambulanza, che arrivò qualche minuto più tardi.


L'autista dell'ambulanza era un conoscente dei miei, un signore di circa cinquant'anni, che aveva perso la figlia ventiduenne in un incidente stradale. Era andata a schiantarsi con la sua Smart contro un albero, nel vano tentativo di evitare uno che non si era fermato allo stop.
Ironia della sorte, fu lui ad intervenire sul posto. 


Mi sdraiarono sulla lettiga, mi aprirono una via (termine tecnico per dire che mi infilarono un ago in vena), e partirono. Erano circa le 0745 e per evitare il traffico dell'ora di punta accesero la sirena. Ricordo che pensai che da dentro quel suono era molto meno fastidioso che da fuori.


Al Pronto Soccorso fu richiesto immediatamente un consulto neurologico e lo specialista che mi vide, dopo aver constatato che i miei riflessi tendinei erano quasi assenti ed avermi fatto un'intervista in cui gli confermai che avevo avuto una influenza intestinale un paio di settimane prima, mi diagnosticò la Miastenia Gravis e prescrisse infusioni di immunoglobuline, cinque flebo al giorno per cinque giorni.


Tuttavia non lo convinceva il formicolio che avevo alle braccia.  

Giorno 2

Quando mi svegliai la mattina del 20 luglio, dopo una cena in cui avevo bevuto più di un bicchiere di troppo, notai subito che le gambe erano pesanti e che entrambe le braccia mi formicolavano, ma attribuii tutto ai postumi di una notte brava. Non esagero mai con l'alcool (veramente non bevo quasi mai), ma la sera precedente, complice il caldo, l'atmosfera estiva romana e soprattutto il fatto che dovevo festeggiare il mio nuovo lavoro, contribuirono all'eccesso.
Col passare delle ore il formicolio, però, anziché diminuire, aumentava di intensità e così anche il senso di pesantezza alle gambe. Così, con la scusa di fare quattro chiacchiere, chiamai la mia migliore amica, fisioterapista neurologica, a cui, fra un gossip e l'altro, chiesi cosa avrebbe potuto causare i miei sintomi. Lei mi tranquillizzò, dicendo che si trattava senz'altro di un attacco di cervicale (chi non ne soffre?), probabilmente uno strascico di un piccolo tamponamento in macchina di cui ero rimasta vittima, accaduto mesi prima, che lei mi rimproverava di non avevo mai realmente curato con un ciclo di fisioterapia, nonostante me l'avesse più volte consigliato. Insomma, come si dice a Roma, mi cazziò.
Mi suggerì comunque di prendere un Muscoril, un Voltaren e di indossare il collarino ortopedico per qualche ora. Seguii il suo consiglio e spedii Daniele a comprare il necessario.
La sera però cominciai a sentirmi peggio, più stanca e più debole, ed anche la voce stava assumendo un timbro nasale, e anche se io credevo che quest'ultimo sintomo fosse più che altro una suggestione, Daniele cominciò a preoccuparsi e mi propose di accompagnarmi all'ospedale. Rifiutai. Lui la mattina successiva aveva la sveglia alle 0400 per andare a lavorare e non intendevo fargli passare la notte al pronto soccorso per quello che pensavo fosse poco più di una mia impressione.

Giorno 1

La mia storia comincia il 19 luglio 2010, quando, fuori con amici per una pizza in una serata afosa ed umida nella Trastevere affollata di turisti, mi accorsi che il mignolo e l'anulare della mia mano sinistra non avevano mai smesso di formicolare, da tutto il giorno. All'inizio non ci avevo fatto caso, pensavo di aver urtato da qualche parte (sono sempre stata così maldestra) e che il formicolio fosse magari il risultato di un micro trauma su qualche nervo.
Così avevo reso partecipi i miei amici e Daniele, il mio compagno, di questo formicolio persistente, esagerando sulle possibili cause, sfiorandomi la testa mimando un finto svenimento, dicendo cose del tipo "ecco la mia ora è arrivata" ed altre sciocchezze simili. Ridevamo tutti. A volte, se la compagnia è quella giusta, basta veramente poco per divertirsi.

Perchè un blog.

Questo è il mio primo blog. E questo è il primo post del primo blog.
Ho deciso di scrivere dopo un incontro ravvicinato con un mostro che si chiama Sindrome di Guillain Barrè.
E' una malattia sconosciuta ai più, rara (colpisce in media 1-2 persone ogni 100.000) e, nella fase acuta, fortemente invalidante.
E' una malattia che arriva di notte, che ti paralizza in poche ore e ti rende quasi un vegetale nel giro di pochi giorni.
Ma è una malattia da cui si può guarire ed io sono qui per testimoniarlo.