Un blog che racconta la mia esperienza con la Guillain Barrè e si rivolge a chi, pazienti e familiari, stiano vivendo o abbiano vissuto lo stesso incubo.
Si legge in senso inverso rispetto all'ordine in cui appaiono i post.

mercoledì 16 febbraio 2011

Dimissioni

Quando, qualche giorno dopo, fui dimessa non mi sembrava vero. Dopo un mese esatto potevo finalmente lasciare quel luogo di sofferenza e morte.
Quella mattina, arrivata l'ambulanza, che avrebbe dovuto trasportarmi nella struttura riabilitativa, si riunirono tutti per salutarmi: per qualche minuto i medici e gli infermieri che così bene avevo imparato conoscere, qualche volta a temere, ma soprattutto a rispettare, si fermarono e mi abbracciarono. Li ringraziai ad uno ad uno. C'era anche chi avevo additato come l'uomo nero, un infermiere un pò scorbutico di cui avevo un sacro terrore e che, nelle elucubrazioni maturate nelle lunghe ore di noia, avevo etichettato come poco professionale oltre che rude. Ero riuscita a convincermi a tal punto che mi angosciasse che una volta mi confidai con la dottoressa e lei mi promise che gli avrebbe parlato.
Da quel giorno lui non si avvicinò più al mio letto.
A parte il fatto che fosse effettivamente un pò burbero, non c'era in realtà una vera ragione per averne paura, era, come la certezza di essere diventata tossicodipendente, una delle tante fisse che la mia mente, vuota di altre preoccupazioni, aveva partorito.
Non riuscii mai a trovare il coraggio per scusarmi di aver pensato tanto male di lui, ma lo abbracciai più forte degli altri, mentre me ne andavo.
La dottoressa, mentre la barella mi portava via, mi sussurrò all'orecchio il numero di telefono del reparto. Chiamaci e facci sapere come va, mi disse.
E io ero talmente entusiasta di lasciare quel posto che non mi soffermai nemmeno un secondo a riflettere su ciò che mi aspettava.

mercoledì 2 febbraio 2011

L'uscita da Rianimazione

La quarta settimana che passai in Rianimazione, fu totalmente dedicata alla rieducazione del respiro. Dovevo reimparare a respirare con naso e bocca, se volevo che mi rimuovessero la tracheostomia.
Cosa più facile a dirsi che a farsi, giacché dopo quasi un mese di respiratore e due settimane di tracheostomia, respirare attraverso il buco che avevo in gola mi sembrava la cosa più normale al mondo. Tanto normale che quando l'infermiere provò a chiudermi la canula quasi mi parve di soffocare.
La canula per tracheostomia ha la possibilità di essere chiusa usando una controcanula, praticamente un tappo, che impedisce all'aria di uscire dal forellino alla base del collo permettendo, d'altra parte, la fonazione. Ma l'abitudine alla canula e, soprattutto, una buona dose di ansia, mi impedirono di gioire per le due conquiste: l'autonomia nella respirazione e la possibilità di tornare a parlare.
Il ventilatore, del resto, non serviva più: i medici erano assolutamente concordi nel giudicarmi idonea alla rimozione della tracheostomia e peraltro, la clinica per la riabilitazione contattata dall'ospedale mi avrebbe accettata soltanto senza di essa. Ma ad ogni tentativo che gli infermieri facevano di chiudermi la canula, mi sembrava non avere abbastanza aria, mi mancava letteralmente il respiro.
Mi fu spiegato che spesso questa reazione è una forma di suggestione, che i miei valori erano tutti nella norma e che, quando mi chiudevano la tracheo, la saturazione non subiva nessuna alterazione, ma io non volevo saperne. Ci vollero quattro giorni di tentativi. Quattro giorni in cui ogni volta che vedevo avvicinarsi un infermiere con tappo per tracheostomia in mano, cominciavo a sudare freddo.
Poi, un giorno, il mio infermiere preferito, che l'indomani sarebbe partito per le ferie, entrò nella mia stanza annunciandomi che, l'avessi voluto o no, mi avrebbe chiuso la canula. Non voleva partire sapendomi ancora trachestomizzata.
Mentre procedeva con l'operazione, mi parlava e mi poneva domande ed io mi ritrovai, ad un certo punto, a rispondergli, senza quasi rendermene conto. Come se nulla fosse, stavo parlando e soprattutto stavo respirando da sola.
Il giorno successivo, pochi minuti alle 1500, i miei già fuori dalla porta del reparto in attesa di poter entrare, uno ad uno, come avevano fatto nell'ultimo mese, l'infermiera invece di sistemarmi il letto, come aveva sempre fatto subito prima dell'ingresso dei familiari, mi chiese se non avessi piuttosto voluto andare io da loro. Mi aiutò a mettermi in piedi, mi sorresse per quei pochi metri che mi separavano dalla porta, ne aprì dapprima un'anta, facendomi restare dietro quella chiusa e...
A mio padre per poco non venne un colpo, mia madre scoppiò in un pianto dirotto ed anche negli occhi di Daniele scorsi qualche lacrima.