Quando mi avevano intubata, mi avevano contestualmente inserito un sondino naso gastrico, lo stomaco devo continuare a lavorare, dicevano i medici, e comunque io non ero in grado di deglutire nulla nel mio stato, figuriamoci con un tubo endotracheale in bocca.
Ci si può immaginare la situazione: intubata, con sondino naso gastrico, sensori per la pressione, il battito, la frequenza respiratoria e la saturazione del sangue attaccati sul petto, frequenzimetro al dito indice, aghi e flebo su entrambe le braccia, catetere urinario e pannolone. Non potevo proprio dire di essere serena in quei giorni.
Per questo chiedevo di essere sedata durante la notte, da sola non sarei mai stata in grado di addormentarmi. Così, ogni sera verso le 2330-2400, un bel bolo di Diprivan mi spediva felice verso quell'oscurità che tanto agognavo.
Non sempre. A volte il Diprivan non bastava. Ero talmente frustrata per aver perso il controllo del mio corpo che temevo di perdere anche quello della mia mente, e la mia ansia mi faceva combattere gli effetti del tranquillante. Medici ed infermieri erano spesso sbalorditi nel vedermi ancora sveglia dopo dosi che, me l'hanno confermato, vengono usate nelle operazioni a cuore aperto. Da lì a guadagnarmi il soprannome di tossica, il passo fu breve. Qualche volta dovettero aggiungere morfina al Diprivan ed allora partivo per viaggi piacevoli ed assurdi. Ricordo le esplosioni di colori, rosso e ocra, soprattutto, che mi facevano pensare di essere dentro un quadro di Gauguin. In sottofondo, ma molto, molto lontano, i rumori dell'ospedale.
La mattina, la mia giornata iniziava sempre con la signora delle pulizie: una di quelle persone che sa sempre tutto di tutti, che si rende utile in reparto anche rispondendo al telefono ed al citofono, che da consigli non richiesti, ed esprime pareri medici di dubbia natura. Il tutto chiaramente usando un volume di voce pari, in decibel, ad un autotreno su una strada di campagna. Se, qualche volta, non la sentivo entrare in reparto per l'inizio del suo turno, alle 0600, perché mettiamo, stavo ancora fra le braccia di Morfeo, venivo catapultata nel mondo dei vivi dal suo spazzolone, che lei, nel nobile intento di pulire la mia stanza, batteva contro la struttura metallica del mio letto più e più volte. Non era solo il rumore. C'era anche la nausea che, in più di una circostanza, ricordo di aver provato per il dondolio che il suo battere sul mio letto, che aveva le ruote, ancorché fosse frenato, causava.
Non lo faceva di proposito, ovviamente, ero io ad essere totalmente insofferente.
Alle 0700 il cambio turno, smontavano i medici e gli infermieri del turno di notte ed attaccavano quelli della mattina. L'odore del caffè e dei cornetti che qualcuno non faceva mai mancare in quel momento della giornata stuzzicava le mie narici e mi intristiva infinitamente non poterli assaggiare.
Poi iniziava l'igiene. Mi staccavano il pannolone, mi lavavano (ah che piacere quell'acqua fresca che scorreva fra le mie gambe!), mi mettevano un pannolone pulito e mi cambiavano le lenzuola. Per portare a termine questa operazione, mi giravano prima da una parte e poi dall'altra scostando da ognuno dei lati le lenzuola da cambiare e posizionando quelle pulite. Non potendo collaborare granché a nessuna di queste operazioni, gli infermieri mi ancoravano al letto, le braccia intorno alle sbarre laterali, in modo da non cadere all'indietro mentre loro cambiavano la biancheria. Il tutto con la paura di perdere il tubo che però, per fortuna, rimaneva saldamente ancorato nella mia trachea e mi seguiva in ogni movimento.
Le ore passavano sempre troppo lente, nella mia stanzetta tutta vetri, che dava sulla camerata in cui erano posizionati altri 10 letti con altrettanti pazienti. Ricordo che l'aria condizionata era spesso talmente forte per le dimensioni della stanza che avevo bisogno di una coperta per non morire di freddo. L'aria arrivava da un bocchettone posizionato esattamente al di sopra della mia testa e spesso pensavo che se mai fossi guarita dalla Guillain Barrè, avrei sofferto di nevralgia cronica al trigemino per il resto della mia vita.
Oltre a ragionare sui danni permanenti provocati dall'aria condizionata, la mia attività quotidiana consisteva anche nel valutare le conseguenze dell'assunzione prolungata di tranquillanti (ero convinta che mi sarei presto ritrovata tossicodipendente), nel contare e ricontare i pannelli del controsoffitto, ascoltare le conversazioni degli infermieri e le discussioni fra i medici e, soprattutto, seguire con trepidazione ogni tentativo di rianimazione di qualche sventurato, perlopiù vecchietti e malati terminali, che spesso, purtroppo, finivano nella dipartita dell'ammalato. La concitazione, il silenzio e poi solo il pianto dei parenti.
Alle 1500, finalmente, arrivava l'orario delle visite.
Per tutto il giorno non aspettavo altro che di vedere i miei genitori, mio fratello, il mio compagno ed i miei amici, ma il tempo non era mai abbastanza. Il mio umore non era, come si può immaginare, propriamente allegro, così mio padre aveva chiesto a tutti di venirmi a trovare più spesso che potevano, cercando di tirarmi su il morale.
Fra i vari farmaci che, ne ero convinta, presto mi avrebbero causato dipendenza, c'erano anche antidepressivi e sedativi, che avevano l'effetto di ridurmi in uno stato quasi letargico: a malapena riuscivo a tenere gli occhi aperti. Figuriamoci come potevo apprezzare tutto quel via vai di di gente (nei reparti di Rianimazione, per ridurre al minimo il rischio di infezioni, si entra uno per volta con indosso camici e sovrascarpe sterili): in realtà, ciò che desideravo di più era che quella mezz'ora passasse il più velocemente possibile, per rimettermi a sonnecchiare. Quindi, per riassumere, prima non vedevo l'ora che arrivassero le 1500 per vedere amici e parenti, subito dopo desideravo solo che se ne andassero tutti.
In questo periodo la paralisi si era fatta totale, l'unico movimento che mi era concesso era quello dell'indice della mano destra, con il quale chiamavo gli infermieri sollevandolo, o battendolo contro le sbarre laterali del letto, nella speranza che qualcuno di loro mi vedesse o mi sentisse. Scoprii anche di poter utilizzare quell'unica parte del mio corpo che ancora si muoveva per disegnare le lettere delle parole sul palmo delle mani di medici e infermieri e comunicare così quello di cui avevo bisogno. Spesso scrivevo solo "testa dritta", che significava che avevo bisogno che la mia testa fosse rimessa in asse col collo, perchè magari era scivolata su un lato e da sola non riuscivo a spostarla.
Il mio compagno, consapevole del mio indice, aveva escogitato un altro sistema prodigioso per permettermi di comunicare. Comprò un ditale da cucito cui incollò un minuscolo pezzo di matita, mi portò un blocco per appunti e, sorreggendomi il polso mi permise di scrivere nel vero senso della parola.
Da quel momento ogni mia comunicazione avveniva per mezzo della matitina sul ditale.
Tengo ancora conservati tutti i bigliettini che scrissi dalla mia stanza d'ospedale. La calligrafia incerta, qualche parola illeggibile e tanta voglia di parlare e soprattuto, di tornare alla normalità.
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