La mattina del 21 luglio, Daniele mi baciò prima di andare a lavorare e mi chiese, preoccupato, se stessi bene. Certo, gli risposi ancora nel dormiveglia. Erano le 0430, la mia sveglia avrebbe suonato solo due ore e mezzo più tardi e non volevo perdere neanche un minuto di sonno.
Ma non andava tutto bene.
Verso le 0630 mi alzai per fare pipì, o meglio, provai a farlo, ma le mie gambe non volevano saperne di uscire dal letto, le mie anche non riuscivano a ruotare permettendomi di mettere i piedi per terra.
I miei muscoli avevano semplicemente smesso di rispondere a qualsiasi comando.
Pensai di nuovo che si trattasse di una esagerazione della mia mente e feci per prendere un sorso dal bicchiere d'acqua che tengo sempre sul comodino. Allungare la mano per portare a termine questo gesto banale fu quasi impossibile, le braccia si erano totalmente intorpidite e le sentivo pesanti in maniera insostenibile.
Arrivai dopo diversi tentativi al bicchiere, ne accostai il bordo alle labbra e mandai giù. Notai subito due cose:
- che la deglutizione mi causava dolore;
- che, soprattutto, non avevo deglutito affatto, visto che l'acqua mi era uscita dal naso.
A quel punto mi convinsi che sarebbe stato meglio chiamare un ambulanza e farmi portare al pronto soccorso ma io abito in una casa su due piani e la mia stanza si trova su quello inferiore: se anche fossi riuscita ad alzarmi dal letto, sarebbe comunque stato impossibile fare le scale, ed aprire la porta ai paramedici. Così telefonai ai miei genitori che abitano a 10 minuti e che, per ogni evenienza, hanno una copia delle chiavi di casa. L'evenienza di solito consiste nel prelevare Emma (il mio labrador) e portarla a fare una passeggiatina quando io e Daniele abbiamo lo stesso turno, ma stavolta era un pochino più seria.
Non volevo comunque allarmare troppo mia madre, la mia intenzione era dirle che non mi sentivo troppo bene e che forse sarebbe stato il caso di portarmi in ospedale.
Ma la voce che mi uscì non era la mia solita voce. Era impastata, affaticata, nasale. Mi accorsi che avevo difficoltà a parlare e se ne accorse anche mia madre.
I miei genitori arrivarono di lì a poco, mio padre si rese subito conto delle mie condizioni e mi portò in braccio al piano superiore, dove mi adagiò sul divano in attesa dell'ambulanza, che arrivò qualche minuto più tardi.
L'autista dell'ambulanza era un conoscente dei miei, un signore di circa cinquant'anni, che aveva perso la figlia ventiduenne in un incidente stradale. Era andata a schiantarsi con la sua Smart contro un albero, nel vano tentativo di evitare uno che non si era fermato allo stop.
Ironia della sorte, fu lui ad intervenire sul posto.
Mi sdraiarono sulla lettiga, mi aprirono una via (termine tecnico per dire che mi infilarono un ago in vena), e partirono. Erano circa le 0745 e per evitare il traffico dell'ora di punta accesero la sirena. Ricordo che pensai che da dentro quel suono era molto meno fastidioso che da fuori.
Al Pronto Soccorso fu richiesto immediatamente un consulto neurologico e lo specialista che mi vide, dopo aver constatato che i miei riflessi tendinei erano quasi assenti ed avermi fatto un'intervista in cui gli confermai che avevo avuto una influenza intestinale un paio di settimane prima, mi diagnosticò la Miastenia Gravis e prescrisse infusioni di immunoglobuline, cinque flebo al giorno per cinque giorni.
Tuttavia non lo convinceva il formicolio che avevo alle braccia.
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